Le opere di difesa della Fanteria d’Arresto
Argomenti trattati
1) -introduzione
2) -evoluzione dell’opera
3) -struttura delle opere dopo il 2* dopoguerra
4) -ubicazione delle opere
5) -caratteristiche delle opere
6) -autonomia dell’opera
7) -mimetizzazione dell’opera
8) -alimentazione elettrica dell’opera
9) -mimetismo dell’opera
10) -armamento dell’opera
11) -sistemi di comunicazione tra opere
12) -simbologia all’interno dell’opera
13) -difesa dell’opera
14) -conclusione
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1)Introduzione
Col termine generico di “opera” si intende un manufatto di difesa, realizzato in caverna oppure in superficie e successivamente ricoperto, con il compito di difendere una zona a lui assegnata.
Le opere in caverna venivano scavate nella roccia e le loro strutture interne venivano rivestite in seguito in calcestruzzo. Si riutilizzava poi il materiale estratto dallo scavo per la costruzione dei malloppi esterni (sia quelli per le camere di combattimento che quelli per la difesa degli ingressi, le caponiere). La soluzione migliore, sia dal punto di vista della resistenza al tiro avversario che della mimetizzazione, era di costruire le opere scavandole nella roccia, ma questo non era sempre possibile e quindi si adottava spesso anche (o solamente) il calcestruzzo per costruire efficaci strutture difensive (con pareti da 3,5 fino a 4,5 metri di spessore). Queste potevano essere realizzate o completamente fuori-terra o semi-interrate, a seconda della topologia della zona, quindi venivano ricoperte con i materiali più adatti per ristabilire, per quanto possibile, l’aspetto originario del luogo, cioè roccia, terra e vegetazione (a volte anche con alberi) o venivano camuffate come costruzioni rurali o montane per migliorarne la mimetizzazione.
Le fortificazioni erano di vario tipo ed erano classificate in due tipi essenziali: fortificazioni di tipo A e tipo B; Le prime erano fortificazioni principali destinate al pronto impiego, presidiate in modo permanente da reparti dell’Esercito e presso le quali erano conservate anche le munizioni pronte all’uso, mentre le seconde di norma non erano non erano presidiate ma ispezionate regolarmente per la manutenzione.
La maggior parte delle fortificazioni (dette “opere” in pianura e “sbarramenti” in montagna) era costruita attorno o in prossimità di assi e ponti stradali più importanti.
Scopo principale della fortificazione permanente era di sostenere lo sforzo di contenimento e di contrasto contro un eventuale invasore da parte delle unità corazzate e meccanizzate. In sostanza, la fortificazione avrebbe dovuto servire a: contenere le forze avversarie e comunque a rallentarne il movimento; incanalarle lungo assi che avrebbero favorito l’intervento delle forze armate italiane (e/o alleate); costituire perno di manovra per le unità mobili della difesa; difendere e tenere zone particolarmente importanti per la difesa o chiudere assi di penetrazione secondari, attraverso i quali potevano essere tentate manovre di aggiramento o di alleggerimento.
La composizione delle opere era molto variabile a seconda della zona in cui si trovavano, del compito loro affidato, del tipo di avversario che avrebbero dovuto contrastare (corazzato o motorizzato) e della morfologia del terreno. Unica eccezione è il complesso difensivo scavato in caverna della Galleria di Purgessimo unica opera assomigliante alle opere del Vallo Alpino.
Il compito di queste opere e della Fanteria d’arresto che le presidiava erano quelli di bloccare per tutto il tempo possibile l’eventuale invasione dall’est lasciando a tutto l’esercito il tempo di riorganizzarsi nelle più fortificate retrovie del fiume Tagliamento.
2)Evoluzione della struttura delle opere
Analogamente agli sbarramenti, l’evoluzione della struttura delle opere nel periodo che intercorre tra la nascita del Vallo Alpino e gli anni della seconda guerra mondiale è avvenuta sostanzialmente in tre fasi, riconducibili alle circolari 200, 7000 e 15000, emanate dallo Stato Maggiore del Regio Esercito per stabilire le direttive per la fortificazione permanente.
A queste fasi ne seguì una quarta negli anni cinquanta quando, contestualmente al riutilizzo in ambito NATO delle opere del Vallo Alpino al confine con l’Austria, si decise di realizzare una nuova serie di opere di fanteria a protezione del nuovo confine con la Jugoslavia, utilizzando criteri costruttivi sostanzialmente diversi dai precedenti.
Struttura delle opere del Vallo Alpino
Opere tipo 200
Le caratteristiche di queste opere, chiamate anche “centri 200”, sono definite dalla “Circolare 200”, che prevedeva la realizzazione di:
Centri di resistenza in caverna o in calcestruzzo armati con mitragliatrici ed eventuali pezzi anticarro, comprendenti camere di combattimento, eventuale osservatorio, ricovero per il presidio, magazzini viveri e munizioni, deposito acqua, gruppo elettrogeno e gruppo di ventilazione e filtraggio dell’aria.
Batterie in caverna armate con cannoni da 75/27, con struttura analoga a quella dei centri di resistenza. Ricoveri per le truppe di contrattacco, con struttura simile a quella dei centri di resistenza, ma privi delle camere di combattimento ed osservazione. Eventuali osservatori isolati, provvisti di locali sotterranei per il personale e di mezzi di comunicazioni con le opere vicine.
Opere tipo 7000
Le caratteristiche di queste opere, sono definite dalla “Circolare 7000”, che prevedeva la realizzazione di semplici monoblocchi di calcestruzzo in grado di ospitate da una a tre armi, che potevano essere mitragliatrici o pezzi anticarro.
Opere tipo 15000
Le caratteristiche di queste opere, sono definite dalla “Circolare 15000”, che prevedeva la realizzazione di strutture di dimensioni maggiori e meglio armate rispetto ai “centri 200”.
Le “opere 15000” potevano essere “grosse”, “medie” o “piccole” ed erano tipicamente armate con mitragliatrici e pezzi anticarro, a cui potevano aggiungersi pezzi di artiglieria da 75/27 e mortai da 81 in postazioni espressamente dedicate.
3)Struttura delle opere di fanteria del secondo dopoguerra
Si optò per la rimessa in efficienza e potenziamento di quelle opere e apprestamenti che, pur realizzate nei tempi precedenti o nel corso della 1^guerra mondiale erano ritenute ancora balisticamente valide e si provvide a rinforzare questo sistema difensivo con alcune strutture fortificate moderne realizzate principalmente lungo il confine orientale (ex Jugoslavia). Lo scopo veniva raggiunto, in cooperazione con altri reparti mobili, con l’ausilio di fortificazioni permanenti, dette “opere”, composte principalmente da cannoni anticarro (dette postazioni P), mitragliatrici (dette postazioni M), posti di osservazione e posti di comando. Tali opere (vedi anche la voce bunker), costruite anche con fondi NATO, erano dislocate nel Friuli-Venezia Giulia e si estendevano dal confine con la ex Jugoslavia (ora Slovenia) sino al fiume Tagliamento, da est verso ovest e dal passo di Tanamea alla zona compresa fra la foce del Timavo e quella dell’Isonzo, da nord a sud.
Nella zona più a nord e seguendo il confine con l’Austria sino al Trentino-Alto Adige, operavano gli alpini, con appositi reparti di alpini d’arresto; per gli alpini le “opere” erano quasi tutte in caverna (scavate nella roccia) ed erano ricavate, previo aggiornamento, delle preesistenti del Vallo Alpino. Ogni “opera” era costituita da più P, M, posti di osservazione e comando e un gruppo di più “opere” costituiva uno “sbarramento”.
4)Ubicazione delle opere
La maggior parte delle fortificazioni (dette opere in pianura e sbarramenti in montagna) era costruita attorno o in prossimità degli assi stradali più importanti e di importanti ponti stradali o ferroviari (ad esempio il ponte della Delizia e Dignano). Scopo principale della fortificazione permanente era di sostenere lo sforzo di contenimento e di contrasto contro un eventuale invasore da parte delle unità corazzate e meccanizzate. In sostanza, la fortificazione avrebbe dovuto servire a: contenere le forze avversarie e comunque a rallentarne il movimento; incanalarle lungo assi che avrebbero favorito l’intervento delle forze armate italiane; costituire perno di manovra per le unità mobili della difesa; difendere e tenere zone particolarmente importanti per la difesa o chiudere assi di penetrazione secondari, attraverso i quali potevano essere tentate manovre di aggiramento o di alleggerimento.
La composizione delle opere era molto variabile a seconda della zona in cui si trovavano, del compito loro affidato, del tipo di avversario che avrebbero dovuto contrastare (corazzato o motorizzato) e della morfologia del terreno. Unica eccezione è il complesso difensivo scavato in caverna della Galleria di Purgessimo unica opera assomigliante alle opere del Vallo Alpino.
Grande uso venne fatto, per le postazioni di tipo P, della tecnica del cosiddetto “carro in vasca” e cioè l’uso di carri armati “interrati” in apposite grosse vasche di cemento armato, atte a contenerli; in questo modo emergeva dal livello del terreno la sola torretta del carro unica parte funzionante dello stesso. Queste torrette venivano mimetizzate in apposite strutture che potevano essere smontate in breve tempo per le necessità di eventuale utilizzo. Limitrofi alla vasca stessa c’erano altri locali accessori (sempre in cemento armato e interrati) per la vita della postazione quali: locale gruppo elettrogeno, deposito munizioni e locali per il personale a supporto. Il carro più usato per questo utilizzo fu lo M4 Sherman.
Le opere di fanteria realizzate nel secondo dopoguerra sono tipicamente costituite da piccole postazioni indipendenti, che si differenziano per funzione ed armamento nei seguenti tipi:
“Postazioni M“, costruzioni sotterranee armate con mitragliatrici.
“Postazioni P“, costruzioni sotterranee armate con pezzi anticarro.
“Posti Comando e Osservazione” (PCO), costruzioni sotterranee più grandi e articolate, che comandavano e coordinavano le precedenti indicando dove dirigere il fuoco sulla base dell’osservazione del terreno circostante.
Le “postazioni M” potevano essere ad esempio costituite da una torretta metallica recuperata dalle opere dismesse e da qualche locale sotterraneo per il personale. Ad una “postazione M” erano solitamente assegnati due o tre soldati: un capo arma ed uno o eventualmente due serventi.
Le “postazioni P” erano tipicamente edificate utilizzando torrette enucleate da carri M4 Sherman o M26 Pershing, sotto le quali veniva realizzata una struttura sotterranea che comprendeva tipicamente ingresso, uscita di emergenza, gruppo elettrogeno, depositi per acqua, viveri e munizioni, sala telefono e radio. Ad una “postazione P” erano solitamente assegnati quattro o cinque soldati: un capo pezzo, un puntatore, un servente caricatore, un servente porgitore ed eventualmente un radiotrasmettitore.
In alcuni casi invece della torretta enucleata, veniva impiegato un carro armato solitamente tipo M26 Pershing privato del motore ed alloggiato in una vasca di cemento armato da qui la dicitura “postazione carro in vasca”.
Le postazione tipo”P” sia a torretta enucleata sia a carro in vasca erano a sua volta mascherate con false casette tipo ”ANAS” oppure con falsi ricoveri attrezzi agricoli o legnaie, ma sempre classificata come tipo P.
Le postazioni carro in vasca erano postazioni a sé stanti, collegate tra loro non da cunicoli sotterranei ma solo con contatti radio.
Le postazione tipo”P” sia a torretta enucleata sia a carro in vasca erano a sua volta mascherate con false
casette tipo ”ANAS” oppure con falsi
ricoveri attrezzi agricoli o legnaie,
ma sempre classificata come tipo P.
Le postazioni carro in vasca erano postazioni a sé stanti, collegate tra loro non da cunicoli sotterranei ma solo con contatti radio.
5)Caratteristiche delle opere
Le camere di combattimento
I punti più importanti, per lo scopo in sé dell’opera, erano le camere di combattimento (anche chiamate “postazioni”), ovvero quelle piccole e anguste stanze, a volte sotterranee, che ospitavano cannoni anticarro o mitragliatrici, celate dietro un’apposita feritoia, appositamente mascherata. Queste erano i punti più deboli dell’intera struttura, che per loro natura erano più esposte e vulnerabili. Si decise quindi di proteggerle inserendo
delle robuste piastre d’acciaio chiamate
piastre di blindamento, riducendo così
anche la dimensione delle aperture.
Sistema di ventilazione
Nelle opere era in funzione un sistema per il ricambio dell’aria, strettamente dipendente dalla compartimentazione degli ambienti realizzata con le porte stagne. L’impianto di ventilazione era costituito da un sistema composto da saracinesche e tubazioni d’aerazione che permetteva di convogliare l’aria proveniente da prese esterne, eventualmente filtrata, ai diversi locali dell’opera per mezzo di ventilatori elettrici o azionati a manovella.
Nelle opere del Vallo Alpino reimpiegate dopo la II Guerra Mondiale il sistema di ventilazione ha subito interventi di miglioramento e semplificazione rispetto a quello previsto dal progetto originale.
Ventilazione nelle opere dopo la seconda guerra mondiale
Nelle opere del Vallo Alpino reimpiegate dopo la II^ guerra mondiale l’impianto di ventilazione centralizzato è stato sostituito con una serie di apparecchiature di diversa tipologia distribuite all’interno dell’opera in prossimità delle installazioni da servire. In particolare sono stati installati:
-gruppi aspiratori elettrici per il ricambio dell’aria all’interno dei ricoveri, sussidiati eventualmente da impianti di deumidificazione dell’aria;
-ventilatori elettrici per assicurare l’afflusso dell’aria nei corridoi che danno accesso alle camere di combattimento;
-ventilatori centrifughi anti-CO azionati a mano all’esterno di ciascuna camera di combattimento.
L’adozione di mezzi individuali per la protezione dagli attacchi NBC (nucleari, batteriologici o chimici) ha inoltre consentito la semplificazione dei settori delle opere con l’eliminazione dei compartimenti stagni.
Ventilazione delle camere di combattimento
Rispetto alla situazione ante 2^ guerra mondiale le modalità di ventilazione delle camere di combattimento sono rimaste funzionalmente le stesse, ma gli impianti hanno subito le seguenti varianti:Eliminazione del compartimento stagno all’ingresso della camera di combattimento e impiego di una singola porta stagna con funzione di protezione antisoffio.
Adozione di un ventilatore centrifugo manuale posto all’esterno di ciascuna postazione in sostituzione del ventilatore centralizzato. L’aria aspirata localmente veniva immessa nella casamatta da un addetto che faceva ruotare una manovella alla velocità di circa 40 giri al minuto primo. In alcuni rari casi il ventilatore centrifugo aveva invece incorporato un motore elettrico che permetteva di avere una velocità di rotazione costante, senza dover impiegare apposta un soldato.
Questi ventilatori centrifughi servivano anche per mantenere una sovrapressione di 0,5 bar rispetto all’ esterno in modo da impedire l’infiltrarsi di gas all’ interno del bunker stesso dopo attacco NBC.
Mimetizzazione feritoie
Dato che le feritoie erano gli unici punti visibili dall’esterno, la loro mimetizzazione era ben curata. Si decise di coprire le feritoie in tempi di pace inizialmente con dei teli metallici su cui veniva fissata una rete metallica rivestita di cemento; successivamente lo si sostituì con della vetroresina. Indifferentemente dal materiale usato, questa copertura doveva confondersi ottimamente con la morfologia e i colori dell’ambiente in cui era costruita l’opera.
Gli ingressi
Oltre alle camere di combattimento, altro punto debole dell’opera era rappresentato dall’ingresso (unico, o a volte anche multiplo).
Questo solitamente si trovava in direzione opposta a quella dell’ipotetica linea di invasione e, se possibile, veniva realizzato in un’apposita trincea, a volte anche coperta, per celarne l’esistenza. Anche all’ingresso era data infatti una grande importanza per quanto riguarda il mimetismo.
Dopo ogni porta d’accesso, vi era sempre un corridoio a “S” fatto per evitare la possibilità di tiri d’infilata verso l’interno dell’opera, spesso munito di una postazione per fucile mitragliatore (detta “postazione in cunicolo armato”) con tiro in direzione della porta d’ingresso per assicurarne la difesa dall’interno. Nelle opere “tipo 15000” l’ingresso era inoltre difeso da un’apposita caponiera, anch’essa armata con fucili automatici.
Solitamente le opere di una certa dimensione avevano due o più ingressi:
oltre a quello principale, si costruiva anche un’uscita di emergenza, posta in una posizione più o meno opposta all’entrata principale, per poter avere una via di fuga in caso di penetrazione all’interno dell’opera. Questa poteva essere un’altra porta o, a volte, anche una piccola botola situata nel pavimento o nella parete del corridoio a “S”, collegata con uno stretto cunicolo che permetteva di uscire all’esterno spostandosi carponi attraverso un’uscita di soccorso, detta anche “passo d’uomo”.
I locali
Le opere all’interno avevano lunghi e stretti corridoi, spesso interrotti da porte stagne e da scalinate che portavano alle camere di combattimento, ma anche agli altri piani, dato che le opere potevano essere costruite anche su due o più piani.
Solitamente al piano superiore si trovavano le camere da combattimento, le riservette delle munizioni, il gruppo elettrogeno, i locali per le comunicazioni, e i locali servizi, mentre al piano inferiore si trovavano il posto comando i dormitori (ricoveri), che utilizzavano particolari strutture di letti a castello in ferro (questi altro non erano che dei corridoi allargati). I letti e le loro reti, nel periodo prima della seconda guerra mondiale, erano in ferro, e quindi con l’umidità delle opere, presto si arrugginivano. Nel dopoguerra invece sono stati sostituiti da letti sempre metallici, ma il militare che dormiva dentro l’opera doveva montarsi il suo letto branda, fatto di stoffa, e quindi anche toglierlo quando questo non era utilizzato.
Presso l’ingresso dell’opera solitamente erano dislocate le latrine, con vasi alla turca, che riducevano così la necessità di dover uscire dall’opera. Raramente anche le pareti laterali di questi locali erano piastrellate o contenevano anche gli scarichi d’acqua. Erano inoltre previsti locali adibiti a infermeria.
All’interno di ogni opera, grande o piccola che fosse, vi erano sempre delle vasche in eternit per la riserva d’acqua non potabile. Data la non potabilità dell’acqua all’interno di queste vasche, nelle opere vi erano delle apposite taniche che contenevano 5 litri d’acqua potabile ciascuna. Queste taniche in vetro erano isolate termicamente con uno strato di polistirolo e rivestite all’esterno con un prisma in plastica marrone.
Le porte
Per difendersi da eventuali attacchi con i gas le opere dovevano essere divise per settori a mezzo di compartimenti stagni situati in tutti i rami di corridoio che avevano comunicazione con l’esterno, cioè gli ingressi e gli accessi alle postazioni e agli osservatori. I suddetti compartimenti erano costituiti da una coppia di porte stagne metalliche di origine navale dello spessore di circa 25 mm munite di guarnizioni di tenuta, la cui chiusura era assicurata da una serie di chiavistelli azionati da un dispositivo a bilanciere o a ruota tipo timone navale.
Tra la coppia di porte era previsto uno spazio di almeno 2,5 m per consentire la sosta per il transito di una barella.
I compartimenti stagni situati in corrispondenza delle postazioni delle armi assolvevano a due ulteriori funzioni:
-impedire che un’eventuale esplosione all’interno della camera di combattimento potesse propagarsi all’interno dell’opera (funzione antisoffio);
-impedire che i fumi prodotti dall’azionamento delle armi, in particolare il monossido di carboni o (CO), potessero penetrare all’interno dei locali di ricovero
e causare l’intossicazione del personal e.
Gli ingressi, situati di regola sul rovescio dell’opera o in luoghi protetti da ostacoli naturali dal tiro avversario, erano normalmente bloccati da una porta esterna denominata, in origine, porta “Tipo 1”, costituita da un serramento metallico con corazzatura spessa 8 mm, chiusura ermetica con guarnizione in cartone d’amianto, munita di spioncino e sufficientemente robusta per sopportare scoppi o schegge.
Quando non era possibile realizzare l’ingresso in una posizione sufficientemente protetta si ricorreva all’impiego di una porta garitta, costituita da una struttura di acciaio con piastre di corazzatura spesse fino a 30 mm che formavano un avancorpo da cui si poteva attuare un’efficace difesa ravvicinata degli ingressi e dei rovesci dell’opera.
6)Autonomia dell’opera
Ogni opera progettata dopo il 31 dicembre 1939, data di emanazione della Circolare 15000, era concepita per essere presidiata in modo permanente, ed era allestita per poter ospitare la truppa e il suo relativo comando, dandogli la possibilità di resistere senza aiuti esterni. Per questo motivo all’interno dell’opera erano presenti alcune vasche d’acqua non potabile in eternit e taniche d’acqua potabile, magazzini per viveri e munizioni, impianti d’illuminazione, di ventilazione, di filtraggio e di rigenerazione di aria e infine gli impianti di protezione anti-CO.
La normale autonomia delle opere riutilizzate dopo la 2^Guerra Mondiale era invece di 8 giorni.
La Compagnia disponeva di una dotazione d’arma commisurata all’ autonomia fissata per l’opera presidiata.
Le postazioni avevano in dotazione per le armi principali orientativamente il seguente munizionamento:
–Postazioni P ( su torretta M3 di carro M26 Pershing e su postazione SF in semiblindata con supporto a sfera) 200 cartoccio/proietto per cannone da 90/50 di cui 120 HEAT(high explosive anti tank), 50 HE(high explosive) e 30 nebbiogeni WP.
–Postazioni P (M3) 20.000 cartucce cal. 7,62 NATO per mitragliatrice Browning M1919 coassiale al cannone di cui 16000 ordinarie e 4000 traccianti.
–postazioni P (M3) 20.000 cartucce cal. 12,7 per mitragliatrice Browning contraerea di cui 16000 perforanti incendiarie e 4000 traccianti
–Postazioni M4 (4 feritoie) 40.000 cartucce cal. 7,62NATO per mitragliatrici 42/59 di cui 32.000 ordinarie e 8.000 traccianti
Alimentazione elettrica
Inizialmente nelle opere di “tipo 200” l’impianto elettrico era in corrente continua. Nella maggior parte delle opere l’energia elettrica veniva fornita da un gruppo elettrogeno, prodotto dalla ditta Costruzioni Meccaniche Fratelli Guidetti – Motori Universali Condor di Milano, che erogava una potenza massima di 1,62 kW a una tensione compresa tra 72 e 90 V. Tra il generatore e la rete si andavano a interporre degli accumulatori tampone che provvedevano ad alimentare gli utilizzatori nei momenti di non funzionamento del gruppo. Se si tiene conto della poca potenza disponibile, risulta chiaro come le lampade dovessero avere una potenza piuttosto limitata: solitamente compresa tra 16 e 24 W. Erano comunque sempre previste lampade d’emergenza a petrolio o candele sistemate in apposite nicchie distribuite nei locali e lungo i corridoi.
Nel 1964/65 le opere ripristinate nel dopoguerra vennero allacciate (ove possibile) alla rete elettrica Enel con linee in corrente alternata trifase a 380 V da usarsi in tempo di pace, mentre all’occorrenza si potevano utilizzare i gruppi elettrogeni.
Mimetismo
Le opere solitamente erano immerse nell’ambiente circostante e dovevano mimetizzarsi perfettamente. Particolare cura veniva data alle feritoie, alle cannoniere e agli ingressi, i punti più esposti.
Per le opere della Fanteria d’Arresto, dato l’ambiente pianeggiante e poco consono a nascondere qualcosa, era più difficile mimetizzarle. Per le opere di montagna invece il mimetismo era più semplice, dato che spesso le opere venivano scavate direttamente nella roccia. Infatti tra le molte opere, si possono osservare come siano stati utilizzati materiali che imitano la roccia circostante (ai tempi si fece largo uso di vetroresina) e come sia stata impiantata vegetazione ad hoc.
In alcuni casi sono state mascherate come dei fienili, legnaie o piccole casette di contadini, quindi ricoperte di assi di legno, in modo che non potessero spiccare all’occhio anche in mezzo a un prato.
In altri casi l’opera veniva mascherata facendole prendere le sembianze di una casa o di un maso, quindi con le feritoie che sembravano finestre e porte.
Altre mimetizzazioni possibili si potevano ottenere simulando la presenza di depositi materiali dell’ANAS o di cabine elettriche, ma queste necessitavano di rimuovere le coperture all’occorrenza.
Casermette
Nei pressi degli sbarramenti erano quasi sempre presenti delle casermette; si possono andare a distinguere due tipi di casermette:
quelle poste in posizioni leggermente più arretrate, adibite ad alloggiare soldati che avevano il compito di mantenere l’efficienza delle opere, sorvegliarle e in caso di necessità anche provvedere a una immediata riattivazione delle opere, secondo piani ben prestabiliti.
quelle poste in alta quota, solitamente lungo le linee di confine, con la possibilità di sorvegliare da posizioni elevate, e in anticipo, le mosse del nemico.
10) Armamento delle opere
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, quando le opere vennero riaperte, e nuovamente presidiate, questa volta dagli Alpini d’Arresto e Fanteria d’Arresto, cambiarono in parte gli armamenti delle opere.
Ecco l’elenco completo delle armi individuali, di reparto e pesanti in dotazione alla Fanteria d’Arresto:
Armi individuali
-Pistola semiautomatica Beretta Mod. 34 cal.9 mm.corto (380 ACP)
-Fucile semiautomatico Garand cal. 7,62 NATO
-Fucile semiautomatico Garand mod M1C e M1D per cecchino cal. 7,62 NATO
-Fucile automatico leggero FAL BM59 modelli Ital e Alpini cal. 7,62 NATO
-Bomba amano SRCM mod.35
Armi di reparto
-Mitragliatrice Breda Mod.37 cal. 8 mm Breda
-Mitragliatrice Breda Mod.38 cal. 8 mm Breda
-Mitragliatrice Browning M1919 cal. 7,62 NATO
-Mitragliatrice MG 42/59 cal 7,62 NATO
-Mitragliatrice Browning M2 cal. .50 Browning (12,7×99) pesante contraerea utilizzata nelle postazioni con carro in vasca che consentivano un ampio raggio d’azione in campo aperto.
Armi pesanti
-Mortaio da 60mm.
-Mortaio da 81mm.
-Cannone senza rinculo SR106 M40A1
-Cannone 75/21 modello IF., di produzione italiana;
-Cannone 75/34 modello SF., di produzione italiana;
-Cannone 90/32 MECAR, che andava a sostituire i due modelli precedenti. Questo cannone era di produzione belga, ed esisteva nelle versioni leggera “L” e pesante “P”;
-Cannone 76/40 Mod. 1916 RM., in alcuni casi in sostituzione del 90/32;
-Cannone 105/25 mod. SF. di produzione italiana
-Cannone 90/50 mod. SF. di produzione italiana
-Torrette enucleate da carri armati (M4 Sherman, M26 Pershing, M47 Patton),
-Carri armati mod. M4 Sherman e M26 Pershing privati del motore e della trasmissione e posizionati in apposite vasche in cemento. Il primo aveva montato un cannone 76/55 (mod. SF. di produzione inglese, noto anche come “17 libbre”), mentre l’altro, un cannone M-3 da 90/50. Inoltre le opere erano difese anche con l’impiego di campi minati del cui dislocamento si occupava il genio militare.
11) Comunicazioni tra e nelle opere
All’interno di ogni opera era prevista l’installazione di una rete telefonica e di altri sistemi per collegare le varie postazioni al comando, come tubi portavoce, pannelli con segnali luminosi e acustici, altoparlanti. Tuttavia, se questo fu realizzato, almeno in parte, nelle opere più grosse, dove le comunicazioni a distanza erano strettamente necessarie, lo stesso non avvenne per le opere di minore estensione, in molte delle quali allo scoppio delle ostilità, nel giugno
I collegamenti esterni erano invece basati sulle stazioni fotofoniche, sostituite in seguito dalle stazioni radio, e sulla rete telefonica con cavo interrato.
Stazioni fotofoniche
I fotofoni erano degli apparati di tipo elettro-ottico che permettevano la trasmissione in full-duplex di un segnale audio per mezzo di un canale di comunicazione basato sull’uso di onde elettromagnetiche nello spettro del visibile o del vicino infrarosso. In pratica il segnale elettrico prodotto da un microfono veniva utilizzato, dopo opportuna amplificazione, per modulare in ampiezza la tensione di alimentazione di una lampada a incandescenza posta in un proiettore ottico, la cui radiazione (nel campo del visibile o dell’infrarosso) veniva inviata in linea retta verso una stazione ricevente. Qui il fascio ottico veniva captato da un sistema catadiottrico costituito da due specchi, nel fuoco del quale era posta una cellula fotoemissiva al cesio che riconvertiva le variazioni luminose in un segnale elettrico che veniva amplificato e inviato a una cuffia con la quale l’operatore poteva ascoltare il messaggio vocale trasmesso dalla stazione corrispondente.
Il sistema poteva funzionare con radiazioni visibili o infrarosse applicando appositi schermi di vetro colorato (speciali filtri) davanti al complesso di trasmissione.
In Italia nel periodo della seconda guerra mondiale il sistema fu utilizzato per la costruzione di stazioni Fotofoniche da parte di diverse aziende come Safar, Micromeccanica ,Galileo che produceva le parti ottiche. La messa a punto era piuttosto macchinosa e veniva messa a punto con due stazioni. Le due stazioni dovevano effettuare una taratura di collimazione entrambe tramite i mirini posti sui gruppo ottici per la massima efficienza .La distanza coperta dalle due stazioni perfettamente allineate andava dai 3 ai 10 km ma erano fortemente determinata dalle condizioni atmosferiche ,la nebbia, la pioggia ed il fumo in caso di cannoneggiamento riduceva la loro efficienza quasi a zero.
Si cercò di correre ai ripari per risolvere almeno in parte il problema . Furono interpellate varie aziende nazionali per trovare una soluzione tra cui la società Geloso che nel giro di pochi mesi trovò la soluzione abbastanza semplice e funzionale. Progettò e realizzò la famosa “ Cassettina Aggiuntiva” ( vedi foto a sx) che con una semplice operazione tramutava la stazione Fotofonica in un ricetrasmettitore VHF funzionante sui circa 50 MHz aumentando la sua efficienza ad oltre 30 KM in linea d’aria .La cassettina era costituita da un contenitore metallico con all’interno tutta la componentistica passiva ed una valvola R.R. B.F. Zenith che svolgeva la doppia funzione come oscillatore in trasmissione ,ed amplificatore in reazione, in ricezione tramite la semplice commutazione dei due pulsanti esterni ,inoltre era dotata di una manopola esterna per affinare la sintonia per il massimo segnale. L’alimentazione era fornita dalla stessa stazione Fotofonica tramite un apposito cavo che veniva collegato ove in precedenza era collegato il cavo della la lampada e la cellula. Lo stesso cavo portava il segnale dal modulatore alla Cassettina in Trasmissione come pure il segnale in ricezione amplificato per le cuffie . In pratica per passare dal sistema ottico al sistema a radio frequenza bastava scollegare il connettore che alimentava la lampada e la cellula e collegarlo al connettore della Cassettina con la sua antenna di circa un metro posizionandola per il miglior rendimento. Il Fotofonico aveva tanti difetti ma aveva un grande pregio non era possibile la intercettazione dei messaggi da parte delle parti avverse.
Cassettina radioaggiuntiva e accessori per stazioni fotofoniche fisse
1. cassettina radioaggiuntiva
2. scatola di derivazione per cavo coassiale di alimentazione antenna
3.spina bipolare doppia per il collegamento della cassettina alla presa di antenna 4.innesto e vite isolata in ceramica per antenna
5.coperchio per detto
6.antenna a stilo lunghezza mt. 1,25
7.mensola a doppia T
8.cavo coassiale con spine bipolari concentriche
Stazioni radio
Data la poca affidabilità dei sistemi fotofonici in caso di nebbia o fumo denso, si decise di munire l’opera con delle radio.
Un primo modello di radio fu la R4/D, successivamente sostituito dal modello RF4/D. Queste radio, oltre a essere ingombranti (antenne di 20 m, di tipo a dipolo) e pesanti (la R4/D pesava 152 kg), avevano una portata di 50–60 km, e operavano attorno ai 1.300-4.285 kHz la prima e 1.270-4.300 kHz la seconda. Spesso il condotto della fotofonica veniva utilizzato per riporre l’antenna.
Soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli apparecchi radio ebbero un ruolo sempre più importante nelle comunicazioni e le opere ripristinate furono dotate di sistemi radio idonei al funzionamento anche dall’interno delle stesse mediante apparati suppletivi denominati “Complessi aggiuntivi OB/9”, che comprendevano un’antenna tipo stilo, un cavo coassiale di collegamento, un adattatore d’antenna e un picchetto con isolatore per il sostegno dell’antenna stessa.[98] Alcuni dei modelli di radio usati furono:
Stazione “CPRC-26”.
Questo apparecchio in radiofonia FM semplice, veniva usato per mantenere i contatti dall’interno dell’opera con il “plotone difesa vicina”, quando questo usciva dall’opera ad esempio per pattugliamenti. La radio aveva le dimensioni 28,5x26x10,2 cm, con un peso complessivo di 4,8 kg (inclusi gli accessori, le batterie e la borsa). La radio aveva sei canali, con una gamma di frequenze compresa tra i 47 e i 55,4 MHz. Le pile davano alla radio un’autonomia di 20 ore. Utilizzando la propria antenna stilo, l’apparecchio aveva una portata di 1,5 km, che poteva aumentare fino a 3 km, se l’antenna veniva allungata aggiungendo uno spezzone di filo di 1,22 m.
Stazione “SCR-300”. Questo apparecchio in radiofonia FM semplice, veniva usato per mantenere i contatti dall’interno dell’opera con il “plotone difesa vicina”, ma anche per la comunicazione opera-opera. La radio aveva le dimensioni 28x43x15 cm, con un peso complessivo di 15 kg (inclusi gli accessori, le batterie e la borsa). La radio aveva 40 canali, con frequenze attorno ai 48 MHz. A seconda delle pile che venivano utilizzate, la radio poteva avere un’autonomia di 10 o 20 ore. La radio aveva due antenne in dotazione, quella a stilo corta, e quella a stilo lunga, che davano rispettivamente una portata di 3 e 5 km.[98]
Stazione “AN/GRC-9”.
Questo apparecchio in radiofonia AM (semplice e non), veniva usato per mantenere i collegamenti dal comando sbarramento ai comandi superiori. La radio era composta da tre parti fondamentali e distinte: un cofano apparati con dimensioni 40x29x22 cm, per un peso di 15 kg, un cofano alimentatore-vibratore di dimensioni 45x24x27 cm, per un peso di 37 kg e un cofano alimentatore-survoltore di dimensioni 33x28x30 cm, con un peso di 16 kg. Complessivamente l’apparecchio aveva un peso di 80 kg. La radio funzionava tra i due e i 12 MHz. Per l’alimentazione dell’apparato potevano essere adottate tre soluzioni, che fornivano rispettivamente 6, 12, o 24 V, e quindi davano rispettivamente 5, 8, o 14 ore di autonomia. A seconda dell’antenna la radio poteva ottenere una portata differente. Se veniva usata l’antenna a stilo, che poteva essere composta da 5 elementi lunghi 1 m, raggiungeva i 25 km in fonia, e 56 km in telegrafia. Se invece si utilizzava un’antenna filare, la radio raggiungeva i 40 km di portata in fonia, e 120 km in telegrafia.
Rete telefonica
Un esempio di un centralino SB-22.
Permutatore telefonico usato nelle opere del Vallo Alpino riattivate nel dopoguerra.
A ciò si mise rimedio nel dopoguerra, con il reimpiego di alcune opere che furono così dotate di rete telefonica sia interna che esterna. Alcuni degli apparati usati furono:
apparato telefonico da campo tipo “EE-8“. Fu usato per i collegamenti interni dell’opera. L’apparato era sistemato all’interno di una custodia in cuoio o di tela di dimensioni 26x21x11 cm, con un peso complessivo dell’apparato (incluse le pile) di 5,1 kg. L’alimentazione era fornita da due pile BA-30 poste in serie, che fornivano una tensione di 3 V.
centralino telefonico campale tipo “UC“, a 10 linee. Fu usato per i collegamenti interni ma anche esterni verso le altre opere dello sbarramento. L’apparecchio era costituito principalmente da una scatola metallica di dimensioni 53x20x20 cm, per un peso totale dell’apparecchio di 21,5 kg. L’alimentazione era fornita da 3 pile WB-0/200 poste in serie, che fornivano una tensione di 4,5 V.
Il centralino telefonico campale “SB-22/PT“, che andava a sostituire all’inizio degli anni ottanta il modello “UC”, aumentando le linee a 12. Fu usato per i collegamenti interni ma anche esterni verso le altre opere dello sbarramento. L’apparecchio era costituito principalmente da una scatola metallico a tenuta stagna di dimensioni 13x39x33 cm, per un peso complessivo dell’apparato di 14 kg. Per l’alimentazione servivano 2 pile BA-30 collegate in serie che fornivano in uscita 3 V. Di queste ne servivano due per il microtelefono, e altrettante per l’illuminazione e alimentazione suoneria.
In sostanza si può affermare che, all’interno dell’opera, i locali principali fossero muniti di apparecchi telefonici portatili, collegati tramite un apposito impianto al centralino telefonico.
12) Simboli, pitogrammi e scritte all’interno delle opere
All’interno dei bunker si utilizzava una particolare simbologia, che oltre a una identificazione progressiva relativa alle postazioni di fuoco, indicava i locali e gli equipaggiamenti all’interno delle opere. Il tipo di simbologia utilizzata, per quanto simile era diversa a seconda del periodo (prima della guerra e nel dopo guerra) e anche a seconda se si trattasse di opera da montagna o da pianura.
Solitamente in tutte le opere all’ingresso dell’opera si trovavano comunque delle indicazioni o nei casi migliori un cartello di alluminio che indicava il numero e la tipologia delle postazioni da fuoco, e quindi gli eventuali vari locali con le funzioni di camerata o di riserva ad esempio.
A volte al posto dei numeri per indicare le diverse postazioni per arma presenti nell’opera, veniva aggiunta una lettera “M” o “P” prima del numero. Questa distinzione stava a indicare la differenza di postazione presente: mitragliatrice o cannone anticarro.
13) Difesa dell’opera
La difesa dell’ opera era affidata fondamentalmente ai plotoni P.O. (presidio opere) ed ai plotoni D.V. (difesa vicina). Il plotone D.V. aveva anche una squadra mortai la cui piazzola era ubicata nei pressi del PCO di tale opera. Normalmente adiacente alla piazzola c’era sempre il ricovero difesa vicina e la riservetta munizioni della squadra mortai.Il plotone P.O. aveva come compito essenziale quello di raggiungere il più velocemente possibile l’opera ad esso affidata, di entrarvici e di presidiare la zona assegnata fino al sopraggiungere (eventuale) della brigata di rincalzo e contrattacco.
Il plotone D.V. composto da fucilieri assaltatori, aveva al contrario come compito quello di difendere l’opera esternamente dagli assalti dei guastatori nemici e, una volta contrastato il primo attacco, eventualmente rifugiarsi all’interno dell’opera. Nel Friuli-Venezia Giulia e nel Veneto, dal dopoguerra fino alla fine degli anni ottanta, era stanziata gran parte dell’Esercito italiano con tutte le specialità e i piani di resistenza all’invasione ben precisi.
14) Conclusione
Con la fine della guerra fredda, la necessità di difendere la “porta di casa”, la cosiddetta Soglia di Gorizia, perse in gran parte la sua valenza e tutte queste postazioni furono progressivamente smantellate: nel 1993 ne venne completata la dismissione.
Con la dismissione/chiusura delle opere, la maggior parte delle armi vennero rimosse, comprese le torrette, carri o parti di esse.
Rimane ancora un mistero la presenza, più volte confermata e smentita, di alcune mine atomiche a difesa della soglia di Gorizia che, come extrema ratio, avrebbero provveduto a bloccare le maggiori direttrici verso l’interno in un eventuale attacco.
Lo Stato Maggiore aveva messo in preventivo che, in caso di guerra, le Truppe d’Arresto si fossero sacrificate all’interno di casematte e carri armati in postazione fissa, con perdite pari o superiori al 90 %; la linea di resistenza era il Tagliamento e, nel peggiore dei casi, il Piave