Il deserto dei Tartari
Una mattina di settembre, Giovanni Drogo, tenente di prima nomina, viene inviato dalla città alla Fortezza Bastiani.
Sembra giunto per lui finalmente il momento di liberarsi della prevedibile e monotona esistenza condotta fino ad allora. Sta per cominciare la vera vita, colma di promesse, soldi, belle donne, avventure. Eppure, nell’abbandonare la casa e la vecchia madre, il giovane avverte una punta di amarezza: abbandona una vita, il mondo dell’infanzia, in cui tutto gli sembrava ancora possibile, in cui tutte le opzioni esistenziali erano ancora aperte e gli si spalanca dinnanzi la vita adulta, fatta di responsabilità, di limiti ed obblighi da rispettare.
Passa un paio di giorni a cavalcare verso la fortezza, e ad un certo punto vede su di un ponte un uomo, il capitano Ortiz, che lo accompagna; durante il viaggio discutono della Fortezza Bastiani, e Drogo ne è scoraggiato, anche perché Ortiz non gliene parla granché bene.
La Fortezza si erge all’orizzonte isolata, in terra di frontiera. Una frontiera morta, ormai, priva di pericoli e di minacce
Arrivati, si rende conto di quanto la fortezza sia squallida, e Ortiz, notandolo, gli propone di poter andar via dopo due giorni o dopo quattro mesi, al momento della visita di controllo. Si rende conto di come sia “non corretto” nei confronti degli altri andarsene dopo due giorni, e decide di restare almeno per quattro mesi. Mentre parlano di questo, Drogo nota da una finestrella un monte ai piedi del deserto, che lo incuriosisce molto.
Gli vien spiegato che altro non è che il deserto del nord, pietre e terra secca, lo chiamano il deserto dei Tartari”, perché un tempo, molto lontano, pare fossero i Tartari a minacciare il confine, che da lì non arriverà mai nessun attacco, che qui sta l’inutilità di tanto spreco di soldati nella Fortezza Bastiani.La Fortezza è un edificio inospitale, le sue mura sono tetre, il paesaggio intorno brullo, desolato, riarso.
Alla Fortezza Drogo sperimenta la solitudine, “lo squallore di quelle mura, quell’aria vaga di punizione ed esilio, quegli uomini stranieri ed assurdi”. Intorno percepisce la rigidità burocratica della vita militare, le regole insensate, la vuota disciplina, un’organizzazione che, in mancanza di un nemico tangibile, gira a vuoto, fine a se stessa.
Il tenente Drogo è deluso, vorrebbe tornarsene in città, ma un po’ i superiori, un po’ oscure forze originate dalla sua stessa anima si oppongono. Vede che i più anziani hanno consumato la loro esistenza nella vana attesa di un evento formidabile che la riscattasse, aspettando cioè la guerra, la battaglia, “l’avventura, l’ora miracolosa che almeno una volta tocca a ciascuno“, l’occasione propizia per dimostrare il proprio valore e ottenere gloria e onori agognati. “Per questa eventualità vaga, che pareva farsi sempre più incerta col tempo, uomini fatti consumano lassù la migliore parte della vita”.
Drogo, col passare del tempo, comincia ad abituarsi alla vita militare, con i suoi riti persino piacevoli e le sue certezze. Non succede quasi niente alla Fortezza: un giorno viene ucciso, per sbaglio e per zelante ossequio al regolamento, il soldato Lazzari, uscito a recuperare un cavallo che credeva il proprio; in un’operazione catastale più che militare, delimitare cioè il confine, muore, poi, ma di freddo, seppur con grande dignità, l’elegante e nobile tenente Angustina, sempre impeccabile nel vestire e nei comportamenti.
Drogo ottiene una licenza e fa rientro in città. Non ne ricava, tuttavia, la felicità sperata: gli amici sono affaccendati, le speranze d’amore deluse, l’affettuoso rapporto con la madre è sbiadito, tra loro è calato come un “velo di separazione”.
Gli anni intanto passano, la carriera di Drogo procede lenta, per esclusiva anzianità di servizio, mentre i vecchi amici, in città, “hanno fatto strada, occupano posizioni importanti”, lo hanno lasciato indietro nella corsa della vita, senza curarsi più di lui. Giovanni aspetta ancora “la sua ora, che non è mai venuta”, ma il tempo stringe, molti cancelli si sono ormai chiusi alle sue spalle, ha bruciato molte possibili occasioni. Le scelte compiute ne stanno condizionando irreversibilmente l’esistenza. “E a più di quarant’anni, senza aver fatto nulla di buono, senza figli, veramente solo al mondo, Giovanni si guardava attorno sgomento, sentendo declinare il proprio destino”.
Come tutti gli uomini, “indifesi contro il lavorio del tempo”, Giovanni Drogo malinconicamente invecchia. Un giorno si è accorto che da parecchio tempo non andava più a cavalcare sulla spianata dietro alla Fortezza. Si è accorto anzi di non averne nessuna voglia e che negli ultimi mesi (chissà da quanto esattamente?) non faceva più le scale di corsa a due a due. Sciocchezze, ha pensato, fisicamente si sentiva sempre lo stesso, tutto stava a ricominciare, non c’era neppure dubbio; una prova sarebbe stata ridicolmente superflua. No, fisicamente Drogo non è peggiorato, se riprendesse a cavalcare e a correre su per le scale sarebbe benissimo capace, ma non è questo che importa. Il grave è che lui non ne sente più voglia, che lui preferisce dopo colazione starsene a sonnecchiare al sole piuttosto che scorazzare su e giù per la spianata sassosa. È questo che conta, solo questo registra gli anni passati. Oh, se ci avesse pensato, la prima sera che fece le scale a un gradino per volta! Si sentiva un po’ stanco, è vero, aveva un cerchio alla testa e nessun desiderio della solita partita a carte […] Non gli venne il più lontano dubbio che quella sera fosse molto triste per lui, che su quei gradini, in quell’ora precisa, terminasse la sua giovinezza, che il giorno dopo, per nessuna speciale ragione, non sarebbe più ritornato al vecchio sistema, e neppure dopodomani, né più tardi, né mai.
Un giorno i nemici, in forze, vengono avvistati all’orizzonte. Nella Fortezza è tutto un trambusto, un riorganizzarsi, un predisporre uomini e armi per lo scontro decisivo. L’ora della gloria è finalmente arrivata. Ma non per Drogo che solo, gravemente ammalato, dimenticato da tutti, considerato ormai un peso, abbandona su una carrozza per malati il fortino per trovarsi in una stanza di albergo di una città sconosciuta, ad affrontare l’unico vero nemico della sua vita. E dopo momenti di rabbia, in cui crede di aver sprecato inutilmente la sua vita, muore sereno perché capisce negli ultimi istanti di dover affrontare con dignità il nemico più grande, la morte.
Drogo assapora finalmente la sua vittoria.
da “Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati
libera riduzione di Alvidio Canevese